Lo vedevo a sprazzi…

Riporto l’estratto di una recente lettura, in quanto molto colpito dalle parole del padre del “cannibale di Mil­wau­kee” Lionel Dahmer, tanto da volerle citare come monito di riflessione ed invito alla lettura di un libro che, anche per chi come me non è del settore, può essere un utile spunto di riflessione e di valutazione; parole disperate di un padre che in buona fede pensava e sperava di fare e dare il meglio per un figlio che nella quotidianità vedeva e capiva poco…


Il rapporto con la figura maschile di riferimento ha un ruolo di primo piano nella costruzione e nel consolidamento dell’identità di genere. Il problema centrale non è tanto come si comporti realmente il padre, ma qual è la percezione del figlio di tale comportamento. In molti casi, quelli in cui non ci sono particolari traumi rilevabili e la famiglia dell’assassino seriale si può definire relativamente “normale”, il padre, del tutto in buona fede, non si accorge di trascurare il figlio e non può certo immaginare che il suo atteggiamento possa contribuire a creare un futuro “mostro”.
Nella società industrializzata contemporanea, un padre molto impegnato nel lavoro, che sta poco a casa e che dedica poco tempo ai figli, è un evento abbastanza comune. Ciò non significa che ci sia un potenziale serial killer in ogni famiglia, ma vuol dire che molti genitori non sono in grado di accorgersi se c’è qualcosa di patologico nei loro figli. A questo proposito, sono particolarmente significative le parole di Lionel Dahmer, il padre di Jeffrey, conosciuto come “il mostro di Mil­wau­kee”, che rivela tutta la sua impotenza nel rendersi conto che c’era qual­cosa di sbagliato nel figlio e il rammarico per non avergli dedicato più tempo perché troppo assorbito dal suo lavoro:

 

Lo vedevo a sprazzi, un bambino che correva per la stanza o che mangiava al tavolo da pranzo. Allo stesso modo lo sentivo, un rapido abbraccio uscendo o rincasando. I nostri discorsi erano frettolosi: «Ciao», «Arrivederci», buttati là mentre uscivo. Il master incombeva davanti a me come un’immensa montagna; tutto il resto mi sembrava piccolo. Ma Jeff non era piccolo, diventava ogni giorno più grande. Eppure, io lo vedevo a stento crescere, notavo appena i mutamenti che si stavano producendo in lui. E così fui costretto a un brusco arresto solo quando Jeff, all’improvviso, si ammalò.

[…]

Nelle fotografie non vedo altro che un bambino che gioca in cortile o che se ne sta seduto in silenzio con il suo cane, ma mi domando se, mentre faceva queste cose, non stesse già sprofondando in un mondo che per me era invisibile. […]

Quanto a me, io vedevo solo un bambinetto tranquillo che […] appariva più riservato di prima, più chiuso, meno pronto a illuminarsi del lampo caldo del suo sorriso. È possibile che non vedessi niente di più di questo perché i miei contatti con lui erano troppo fugaci. […] Non ricordo la sua espressione né mi viene in mente la luce dei suoi occhi. Cosa più grave, non ricordo di essermi accorto che la luce che c’era prima stesse lentamente spegnendosi. […] Non ero presente per percepire, ammesso che mi fosse stato possibile, che forse stava scivolando verso quell’inimmaginabile regno di fantasia e isolamento che avrei impiegato quasi trent’anni a riconoscere. Eppure, è possibile che stesse succedendo proprio allora, mentre io trangugiavo in tutta fretta le mie cene e gli passavo accanto precipitandomi alla porta, confortato dall’idea di essere l’unico in famiglia a cui toccasse uscire di sera.

 

A un osservatore esterno, una famiglia può sembrare assolutamente normale e il genitore stesso, talmente assorbito dai molteplici impegni quotidiani, è convinto che tutto vada per il meglio all’interno del nucleo familiare perché non trascorre molto tempo insieme al figlio e, nelle occasioni in cui sta con lui, lo vede tranquillo ed educato e non sospetterebbe mai quello che si può celare dietro l’apparente serenità. Il bambino, invece, si sente abbandonato e vive la frustrazione continua di un padre che ha poco tempo da dedicargli, quindi, secondo i parametri del suo modo immaturo di ragionare, lo rifiuta.

(Vincenzo Maria Mastronardi, Ruben De Luca) – “I serial killer”

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