Riporto l’estratto di una recente lettura, in quanto molto colpito dalle parole del padre del “cannibale di Milwaukee” Lionel Dahmer, tanto da volerle citare come monito di riflessione ed invito alla lettura di un libro che, anche per chi come me non è del settore, può essere un utile spunto di riflessione e di valutazione; parole disperate di un padre che in buona fede pensava e sperava di fare e dare il meglio per un figlio che nella quotidianità vedeva e capiva poco…
Lo vedevo a sprazzi, un bambino che correva per la stanza o che mangiava al tavolo da pranzo. Allo stesso modo lo sentivo, un rapido abbraccio uscendo o rincasando. I nostri discorsi erano frettolosi: «Ciao», «Arrivederci», buttati là mentre uscivo. Il master incombeva davanti a me come un’immensa montagna; tutto il resto mi sembrava piccolo. Ma Jeff non era piccolo, diventava ogni giorno più grande. Eppure, io lo vedevo a stento crescere, notavo appena i mutamenti che si stavano producendo in lui. E così fui costretto a un brusco arresto solo quando Jeff, all’improvviso, si ammalò.
[…]
Nelle fotografie non vedo altro che un bambino che gioca in cortile o che se ne sta seduto in silenzio con il suo cane, ma mi domando se, mentre faceva queste cose, non stesse già sprofondando in un mondo che per me era invisibile. […]
Quanto a me, io vedevo solo un bambinetto tranquillo che […] appariva più riservato di prima, più chiuso, meno pronto a illuminarsi del lampo caldo del suo sorriso. È possibile che non vedessi niente di più di questo perché i miei contatti con lui erano troppo fugaci. […] Non ricordo la sua espressione né mi viene in mente la luce dei suoi occhi. Cosa più grave, non ricordo di essermi accorto che la luce che c’era prima stesse lentamente spegnendosi. […] Non ero presente per percepire, ammesso che mi fosse stato possibile, che forse stava scivolando verso quell’inimmaginabile regno di fantasia e isolamento che avrei impiegato quasi trent’anni a riconoscere. Eppure, è possibile che stesse succedendo proprio allora, mentre io trangugiavo in tutta fretta le mie cene e gli passavo accanto precipitandomi alla porta, confortato dall’idea di essere l’unico in famiglia a cui toccasse uscire di sera.
A un osservatore esterno, una famiglia può sembrare assolutamente normale e il genitore stesso, talmente assorbito dai molteplici impegni quotidiani, è convinto che tutto vada per il meglio all’interno del nucleo familiare perché non trascorre molto tempo insieme al figlio e, nelle occasioni in cui sta con lui, lo vede tranquillo ed educato e non sospetterebbe mai quello che si può celare dietro l’apparente serenità. Il bambino, invece, si sente abbandonato e vive la frustrazione continua di un padre che ha poco tempo da dedicargli, quindi, secondo i parametri del suo modo immaturo di ragionare, lo rifiuta.
(Vincenzo Maria Mastronardi, Ruben De Luca) – “I serial killer”