“Rainer Maria Rilke!”

“Rainer Maria Rilke!”,

rispondeva esclamativa Cvetaeva dopo qualche giorno, omettendo il titolo di poeta nell’intestazione della sua missiva a chi per lei era l’incarnazione, il nome stesso della poesia.

Tono, tempo verbale, “tu” confidenziale, tenore dello scambio epistolare, tutto avrebbe deciso Marina…

Scavalcando la ferialità dei giorni del calendario, spediva lettere postdatate che arrivavano prodigiosamente anzitempo, o ringiovaniva di un paio d’anni se stessa, il marito, i suoi figli, per prolungare nel passato l’età della neonata amicizia.

Lasciava da parte convenzioni, convenevoli, complimenti, formalità e manifestava ingenuamente il suo “timore reverenziale”.

Evitava il “Rilke-uomo, che vive e pubblica i suoi libri”, esitava a entrare “nella Tua vita, nel Tuo tempo, nella Tua giornata di lavoro” e rivolgeva al poeta la più pura dichiarazione d’amore:

“Ti amo come si ama chi non si è mai visto”.

 

“Non devi sentirti obbligato a rispondermi. So che cosa significa il tempo e che cosa è una poesia e che cosa è una lettera”.

“E’ così raro che le mie mani vogliano qualcosa”,

“Posso baciarti?”,

“Io ti amo e voglio dormire con Te, lo dico con altra voce, quasi nel sonno, già nel sonno”.

Rilke già si era addormentato per sprofondare nel sonno eterno quando lo raggiunse straziante l’ultima cartolina di lei:

“Rainer! Io vivo qui. Mi ami ancora?”.

P.S: Marina Cvetaeva e Rainer Maria Rilke non si incontrarono mai…

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