POESIE DI GUERRA


La terribile e sanguinosa Prima Guerra Mondiale si chiudeva nel 1918: novant’ anni ci separano dalle gesta di eroi e codardi, vittime e carnefici del primo grande conflitto del XX secolo.

Fin dalle scuole elementari ci hanno spiegato come la Grande Guerra,con la sua scia di morte e disperazione, abbia scosso la coscienza umana e messa a dura prova la volontà di rialzarsi e di guardare avanti senza voltarsi mai più indietro, perché, come novelli Orfei,il castigo non sarebbe stato la perdita dell’amata, ma l’abbandono di quella serenità d’animo senza la quale è impensabile gettare le fondamenta di un futuro migliore.

Non mi soffermerò a fare il triste elenco di danni materiali e morali che il conflitto arrecò alle singole famiglie perché le mie parole sarebbero ben poca cosa rispetto alla realtà dei fatti, ma offrirò ai lettori l’interpretazione che della guerra fece il poeta-soldato Giuseppe Ungaretti, chiamato come soldato semplice di fanteria alla fine del 1915 e inviato a combattere sul Carso.

L’esperienza bellica cambiò notevolmente il giovane poeta e grazie alle sue poesie possiamo comprendere cosa significasse vivere al fronte. Ungaretti era solito portare nel suo tascapane carta e penna per immortalare i momenti salienti delle sue giornate e alcune tra le sue migliori liriche sono proprio quelle che componeva nei momenti di tregua, in trincea, tra compagni feriti, depressi, impauriti.

La condizione del soldato è espressa magnificamente nella brevissima poesia Soldati, la quale recita

si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”.

Il poeta paragona il soldato alle foglie che cadono dagli alberi nella stagione autunnale: basta un soffio di vento per far staccare la foglia dal ramo così come basta un colpo di fucile a far cadere un soldato.

Tuttavia in questi versi si può facilmente riconoscere la condizione umana in generale e il poeta riprende questo motivo da illustri opere del passato quali l’Antico Testamento, l’Iliade, l’Inferno dantesco.

Come scorrevano i giorni e le notti in trincea? Ungaretti, nella poesia Fratelli, rappresenta l’incontro in una notte scura di alcuni soldati che, riconoscendosi, si chiamano fratelli, usando una parola che timidamente sussurrata, sembra essere fragile come una foglia appena nata ma che allo stesso tempo indica la fratellanza,unica ancora di salvezza in un mondo in preda alle atrocità della guerra.

Al fronte si vivono momenti di grande disperazione e paura: nella lirica Veglia il poeta si trova a fianco di un compagno morto, e scrive “un’intera nottata buttato vicino a un compagno massacrato con la sua bocca digrignata volta al plenilunio con la congestione delle sue mani penetrata nel mio silenzio ho scritto lettere piene d’amore . Non sono mai stato tanto attaccato alla vita”. Era il 23 dicembre 1915 e il giovane Ungaretti si aggrappava con tutte le sue forze alla vita e ai sentimenti positivi dell’esistenza umana.

Nei rari momenti di tranquillità il poeta al fronte riesce a provare istanti di vero benessere come scrive il 26 gennaio 1917:

M’illumino d’immenso

e con queste parole espressive vuol esprimere la sua felicità nel sentirsi parte dell’infinito universo.

Immaginiamo la scena: il giovane soldato si sveglia all’alba e guardando il cielo sereno e pieno di novella luce percepisce una sensazione di benessere che lo fa sentire in armonia con la natura. È uno dei pochi momenti per cui vale la pena vivere.

Qualche volta in guerra c’è un po’ di tempo per pensare alla propria vita e Ungaretti ci fornisce una sorta di cartad’identità elencando in una poesia i fiumi che hanno segnato letappe della sua vita fino a quel momento: il Serchio “al quale hanno attinto duemil’anni forse di gente campagnola e mio padre e mia madre”; il Nilo “che mi ha visto nascere e crescere e ardere d’inconsapevolezza nelle estese pianure”; la Senna “e in quel suo torbido mi sono rimescolato e mi sono conosciuto”; l’Isonzo, nel quale s’è riconosciuto “docile fibra dell’universo”.

In un’altra occasione il poeta, non potendo sopportare il gran dolore che gli attanaglia il cuore e non avendo più lacrime da versare si sfoga così:

“Come questa pietra del san Michele così fredda così duracosì prosciugata così refrattaria così totalmente disanimata come questa pietra è il mio pianto che non si vede. La morte si sconta vivendo.” (Sono una creatura).

Ungaretti, ormai disamorato, arriva a sostenere che la paura della morte non deve esistere perché il dolore si prova vivendo ed essa è l’unico momento in cui ci si può finalmente riposare dalla fatica del vivere.

Ripensando agli amici che la guerra gli ha portato via il poeta scrive, il 27 agosto 1916, aSan Martino del Carso:

Di queste case non è rimasto che qualche brandello di muro. Di tanti che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto. Ma nel cuore nessuna croce manca. È il mio cuore il paese più straziato.

Ecco cosa rimane dopo la furia della guerra: qualche frammento di muro e un cuore sanguinante pieno di croci, per non dimenticare le persone care che la follia umana ha strappato al nostro affetto.

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